Riportiamo le riflessioni scritte dall’ Avv. Pietro L. Frisani per la conferenza stampa informativa dei 10 anni dell’ Associazione Eara di Trieste, da sempre impegnata nella battaglia contro l’ amianto
di Pietro L. Frisani – La chiusura delle decine di processi penali da eternit partendo ad esempio da “marina militare Padova” passando per l ‘Ilva di Taranto, che si sono conclusi con l’assoluzione degli imputati per intervenuta prescrizione hanno definitivamente confermato come dal punto di vista sostanziale la strada del processo penale per gli esposti ad amianto e, purtroppo troppo spesso agli eredi di questi, è il più delle volte improduttiva di effetti. Ciò perché la responsabilità penale è personale e quindi ci si trova a giudicare soggetti di età molto avanzata che spesso non sopravvivono al processo, ed altresì perchè i termini della prescrizione penale decorrono dalla consumazione del reato che nei casi di amianto “non può considerarsi protratta oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri e dei residui della lavorazione dell’amianto prodotti dagli stabilimenti della cui gestione è attribuita la responsabilità all’imputato” ( stralcio sentenza eternit). Quindi parliamo di condotte che nella migliore delle ipotesi sono cessate alla data di promulgazione della legge sull’ amianto e quindi massimo al 1992.
Nonostante gli sforzi compiuti da alcuni tribunali e Corti di Appello nel cercare di allungare il più possibile i termini di prescrizione, anzi più precisamente la data della decorrenza della stessa, la triste realtà è che ormai tutti i processi penali relativi a reati conseguenti a condotte colpose per esposizione dei lavoratori a fibre di amianto si concludono con un nulla di fatto falcidiati dalla mannaia della prescrizione.
La strada del processo civile, invece, offre maggiori garanzie: sia in termini di esito positivo del processo nel senso di ottenere una condanna dell’azienda al risarcimento del danno, sia in termini di decorrenza della prescrizione la cui disciplina è profondamente diversa rispetto a quella penale. La prescrizione del risarcimento del danno in campo civile, infatti, a differenza del campo penale comincia a decorrere non dal giorno in cui il terzo tiene il comportamento che determina poi a distanza di anni il danno, e neanche dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, bensì da quello in cui la malattia può essere percepita, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche, come un danno conseguenza del comportamento del terzo. Non è, pertanto, sufficiente la mera consapevolezza da parte della vittima di stare male, bensì occorre che quest’ultima da un lato sia consapevole di aver sviluppato una malattia irreversibile o comunque duratura, dall’altro lato, sia altresì consapevole di cosa ha determinato la sua malattia, e quindi del fatto che a monte della stessa vi sia stato un fatto illecito ( in tal senso le Sezioni Unite della Cassazione sentenza n. 576/2008). E’ di tutta evidenza quindi come, trattandosi di danni lungolatenti, nel campo civile la prescrizione decorra a distanza di 30 o anche 40 anni dal fatto illecito e cioè dal momento in cui insorge la malattia e si ha piena consapevolezza che la stessa è da ricondursi alla attività illecita del proprio datore di lavoro. Orbene nel campo civile la prescrizione del danno è di natura contrattuale e quindi di durata decennale ed in particolare trattandosi di danni da rapporto di lavoro la normativa specifica ha previsto, in caso di decesso, un aumento di detto termine a 14 anni.
Sappiamo purtroppo come nel caso di diagnosi di mesotelioma pleurico, le speranze di vita siano molto ridotte, per cui possiamo certamente considerare che il termine di prescrizione dell’azione di risarcimento del danno sia individuabile il più delle volte in una data che oscilla tra i dieci ed i dodici anni dalla data del decesso. A ciò si aggiunga che per interrompere i termini di prescrizione nel campo civile basta una semplice raccomandata cosa impossibile nel procedimento penale. Ricordo poi che l’azione civile può essere esercitata dal lavoratore esposto e proseguita, in caso di decesso, dai suoi eredi che avranno diritto sia al risarcimento a titolo ereditario di quanto avrebbe avuto il loro congiunto se fosse stato in vita, si ad un risarcimento per loro stessi per aver perduto il proprio congiunto a causa dell’attività illecita del datore di lavoro.
Certamente anche l’azione civile ha le sue insidie e non può ovviamente ritenersi una causa vinta in partenza ma sicuramente non si espone alla mannaia della prescrizione come per il penale in quanto per tutta la durata del processo civile la prescrizione rimane interrotta, quindi non vi è alcuna possibilità che il decorso del tempo possa comportare conseguenze nefaste nel corso del giudizio . A ciò si aggiunga che non si corre neanche il rischio di decesso del responsabile per “sopravenuti limiti di età” in quanto l’azione non è contro una persona fisica bensì contro l’ente che il più delle volte è un ente pubblico, che non può fallire e che è lo stesso da oltre 50 anni ( vedi ferrovie dello stato, ministero difesa , ministero interno etc).
Avv. Pietro L. Frisani