Il Tribunale di Bologna (sentenza del 24 gennaio 2017 n 20064), facendo applicazione del principio civilistico della «probabilità prevalente», ha condannato in via solidale il Ministero della Salute (responsabilità extracontrattuale), la Gestione Liquidatoria della ex USL di Bologna e la Regione Emilia Romagna (responsabilità contrattuale) al risarcimento del danno non patrimoniale, quantificato in 355.000 euro a favore di una donna (assistita dallo Studio Legale Frisani) contagiata da epatite C a seguito di una serie di trasfusioni con sangue infetto avvenute nel lontano 1974 presso l’Ospedale S. Orsola di Bologna.
La scoperta della positività al virus Hcv è avvenuta nel 2010 mentre l’atto di citazione è del 2013, per cui è stata rigettata l’eccezione di prescrizione (tanto quinquennale per responsabilità extracontrattuale che decennale per quella contrattuale). Nel corso dello stesso anno poi la Commissione Medica Ospedaliera di Taranto, durante la procedura per ottenere l’indennizzo di legge, aveva riconosciuto il nesso di causalità tra le trasfusioni e l’epatite C.
In giudizio, la Ctu ha evidenziato altre cause alternative all’emotrasfusione per la trasmissione del virus, fra cui gli interventi chirurgici, la terapia odontoiatrica, i trattamenti estetici, gli strumenti endoscopici, i rapporti sessuali. Nel caso specifico, però, prosegue la sentenza, gli unici «fattori causali certi» sono le trasfusione e le endoscopie, diversamente «si finirebbe per ragionare su mere ipotesi» con l’effetto di invertire l’onere probatorio posto a carico della regione e dell’ente liquidatorio.
Dunque, siccome la Cassazione ha chiarito che se i dati scientifici prevedono una molteplicità di fattori, «la scelta da porre a base della decisione di natura civile va compiuta applicando il criterio della probabilità prevalente (n. 7554/2010)», bisogna scegliere quel fattore che «riceve il supporto maggiore sulla base degli elementi probatori». E nel periodo interessato la donna aveva effettuato soltanto due endoscopie a fronte di circa 20 trasfusioni. A ciò si deve aggiungere che, sempre secondo la Ctu, all’epoca il sangue trasfuso «non era sottoposto a rigorosi controlli» anche perché «il virus dell’epatite c non era ancora conosciuto» e mancava una appropriata «classificazione dei donatori». Dunque, «non può che ritenersi più probabile che l’attrice abbia contratto il virus dalle trasfusioni che non dalle endoscopie».
Il Tribunale ha perciò stabilito la responsabilità concorsuale e solidale del Ministero della Salute, venuto meno ai propri obblighi di vigilanza e controllo, e della Regione Emilia Romagna con la Gestione Liquidatoria della ex U.S.L. di Bologna, per non avere apprestato le opportune cautele volte ad impedire la trasmissione di malattie attraverso sangue infetto. Di conseguenza, il Ministero deve rispondere per responsabilità extracontrattuale ex articolo 2043 del codice civile, la struttura ospedaliera, per responsabilità contrattuale (da contatto sociale) ex articolo 1218 del Cc. In sede liquidatoria, poi, il Giudice ha decurtato il risarcimento dei circa 50mila euro corrisposti alla donna dallo Stato a titolo di indennizzo, ai sensi della legge 210/1992.
Per gli avvocati Pietro Frisani e Emanuela Rosanò, legali dell’attrice : «Il Tribunale ha fatto corretta applicazione del principio della “probabilità prevalente”, per cui, a fronte di una menomazione dell’integrità psico-fisica in ipotesi potenzialmente derivante da una pluralità di cause, il Giudice deve – tra tutte – scegliere quella che riceve il supporto maggiore sulla base degli elementi prodotti in giudizio».
«La legge 210/1992 – concludono -, ha creato un simulacro di risarcimento riconoscendo una indennità di importi spesso risibili alle vittime con ciò ingenerando il convincimento di aver ottenuto l’ integrale ristoro dei danni subiti. I danni effettivi invece a titolo di integrale risarcimento ammontano agli importi liquidati dal Tribunale di Bologna».
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